Le storie che raccontiamo di notte ci rivelano chi siamo davvero.
Neil Gaiman
La festa di Halloween, conosciuta tradizionalmente come la vigilia di Ognissanti, è la notte in cui il confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti sembra assottigliarsi. Anche se questa festività nella sua forma moderna deriva da alcune tradizioni cristiane di matrice celtica portate in America dai migranti europei, l’Italia custodisce un patrimonio estremamente ricco e variegato di leggende oscure e racconti popolari capaci di incutere timore e curiosità.
...molte delle leggende italiane più spaventose non nascono come semplici storie da brivido, ma come avvertimenti popolari: racconti tramandati per spiegare eventi inspiegabili, per mettere in guardia i bambini dai pericoli della notte o per dare voce a paure collettive.
Oggi, rilette durante Halloween, queste narrazioni assumono un fascino particolare: un viaggio tra storia, superstizione e folklore, che ci fa scoprire un volto oscuro e affascinante dell’Italia.
Dai fantasmi che infestano antichi castelli alle streghe che si aggirano nei boschi, fino alle presenze misteriose legate a borghi medievali, il nostro paese non ha nulla da invidiare alle più celebri tradizioni horror anglosassoni.
In questo articolo scopriremo le storie più spaventose della tradizione italiana per entrare nell'atmosfera della festa più spooky dell'anno!
Le leggendarie Janare di Benevento
Tra le leggende più inquietanti d’Italia, quella delle Janare – streghe legate alla città di Benevento – occupa un posto speciale. Il loro nome deriverebbe dal latino Dianara, “seguace di Diana”, dea della caccia e delle selve, a cui in epoca antica venivano dedicate cerimonie notturne. Con il passare dei secoli, però, queste figure vennero demonizzate dalla Chiesa e trasformate in incarnazioni del male.

Si racconta che le Janare fossero donne dai poteri oscuri, capaci di preparare unguenti magici, lanciare maledizioni e compiere sortilegi d’amore o di vendetta. Secondo la tradizione popolare, di notte si radunavano sotto un grande noce di Benevento, un albero leggendario che divenne il fulcro dei loro sabba, cerimonie notturne in cui danzavano, evocavano spiriti e stringevano patti con il demonio.
La paura delle Janare era così radicata che, fino a pochi secoli fa, si credeva davvero che potessero introdursi nelle case passando sotto le porte. Per difendersi, si lasciava sullo stipite un mucchietto di sale grosso o una scopa: la strega, ossessionata dal dover contare i grani o i fili, sarebbe stata distratta fino all’alba, quando avrebbe perso i suoi poteri.
Oggi la leggenda delle Janare è diventata parte integrante dell’identità culturale di Benevento: tra folklore, turismo e rievocazioni storiche, continua a suggestionare chiunque si avvicini alla città campana, ricordandoci quanto il confine tra superstizione e realtà sia sottile e affascinante.
Il Munaciello di Napoli: spirito ambiguo tra fortuna e disgrazie
Nel cuore di Napoli aleggia la leggenda del Munaciello, uno degli spiriti più enigmatici e contraddittori del folklore partenopeo. Il suo nome significa letteralmente “piccolo monaco”, e si dice che appaia come un omino di bassa statura, vestito con un saio scuro e un cappuccio che gli nasconde il volto. Ma dietro quell’aspetto innocuo si cela un’entità imprevedibile, capace di portare sia ricchezze inaspettate che terribili sventure.
Secondo la tradizione, il Munaciello si introduce nelle case attraverso cunicoli e passaggi segreti, lasciando dietro di sé monete d’argento o d’oro per i più fortunati
o provocando dispetti e rovesci di fortuna a chi lo offende.

È uno spirito capriccioso: può essere benevolo con chi lo rispetta, ma vendicativo con chi ride di lui o non mantiene la parola data.
Secondo una delle versioni più antiche, il suo mito nasce nel XV secolo, ispirato a un tragico episodio realmente accaduto. Si narra che fosse il figlio illegittimo di una nobildonna e di un popolano, ucciso per vendetta e destinato a vivere nascosto nei sotterranei della città. Vestito con un piccolo saio nero, simbolo di penitenza, il bambino si aggirava per i vicoli di Napoli portando con sé la fama di spirito inquieto e dispettoso. Un’altra ipotesi lo collega ai pozzari napoletani, uomini che lavoravano nei pozzi e nelle cisterne per gestire la distribuzione dell’acqua. Questi operai, spesso coperti da cappucci per proteggersi dal freddo, avevano accesso ai sotterranei e potevano spuntare improvvisamente nelle case, alimentando l’immaginario popolare di un essere capace di apparire e scomparire a suo piacimento.
Col tempo, il Munaciello è diventato un simbolo della doppia anima di Napoli: luminosa e ombrosa, ironica e superstiziosa. Ancora oggi molti napoletani, pur sorridendo, non osano nominarlo a cuor leggero: perché il Munaciello, si dice, vede tutto e si fa vedere solo quando vuole lui.
Il fantasma di Azzurrina, la bambina dai capelli azzurri
Tra le mura del Castello di Montebello, in Emilia-Romagna, aleggia da secoli una delle leggende più toccanti e misteriose d’Italia: quella di Azzurrina, la bambina dai capelli blu. Il suo vero nome, secondo la tradizione, era Guendalina Malatesta, figlia di un nobile del XIV secolo.
Si dice che fosse albina, e che i suoi genitori, per proteggerla dai pregiudizi e dalle accuse di stregoneria, le tingessero i capelli con pigmenti naturali. Il risultato era una chioma dai riflessi azzurrati che le valse il soprannome con cui è ricordata ancora oggi.

La storia racconta che, durante un temporale del 21 giugno 1375, Azzurrina stesse giocando nel castello con la sua palla di stracci, sorvegliata da due guardie
In un attimo di distrazione, la palla rotolò verso la ghiacciaia sotterranea e la bambina la inseguì. Da quel momento Azzurrina non fu mai più ritrovata. Le guardie giurarono di aver sentito un urlo, poi il silenzio. Da allora, il suo spirito inquieto si dice che torni a manifestarsi ogni cinque anni, proprio durante il solstizio d’estate, tra tuoni e pioggia, con un pianto o un sussurro che risuona nelle sale del castello.
Oggi il Castello di Montebello è una meta turistica e misteriosa: durante le visite guidate, si possono ascoltare le registrazioni dei presunti suoni di Azzurrina, catturati negli anni proprio durante le ricorrenze della sua scomparsa.
Che si tratti di una storia vera o di una leggenda, la sua storia continua ad affascinare e a inquietare: la piccola Azzurrina è divenuta un’icona del mistero italiano, simbolo di un’infanzia sospesa tra innocenza, dolore e magia.
La Dama Bianca dei castelli del Nord Italia
Nei castelli del Nord Italia, specialmente in Veneto, Friuli, Emilia e Piemonte, il mito della Dama Bianca è una costante cupa del folklore, triste incarnazione della tragedia femminile e del rimpianto eterno. Non si tratta di una sola donna, ma piuttosto di più volti dolorosi riassunti in un archetipo: una giovane donna bella, spesso nobildonna, legata a un amore contrastato, a un tradimento, a una promessa infranta, o a una morte atroce dentro o nei pressi del castello.
In molte versioni la storia ruota attorno a un fidanzamento imposto, a un amante nascosto o a un marito geloso. Alcune Dame Bianche sarebbero state murate vive, costrette alla clausura, tradite dalle famiglie, vittime di violenze morali o fisiche.
Spesso il loro spirito torna, vestito di bianco, nel cuore della notte o nelle notti di luna piena, per esprimere il proprio dolore e per gridare l'ingiustizia subita: passi nei corridoi, lamenti sommessi, il suono di un tessuto che sfiora la pietra, oppure apparizioni fugaci in una finestra... la Dama Bianca reca con sé spavento e terrore!

Un esempio emblematico è quello di Beatrice Pallavicino, al castello di Varano de' Melegari: morta a ventuno anni in circostanze misteriose la sua figura aleggerebbe ancora tra le stanze del maniero, racconto vivente di una giovinezza spezzata.
Queste leggende svolgono una funzione che tracende il semplice desiderio di incutere spavento: esse offronoun monito morale contro l’ingiustizia, la violenza domestica e la gelosia e invitano a riflettere su come la storia delle donne sia spesso stata caratterizzata da sacrifici invisibili, da una sofferenza nascosta e da memorie che non possono tramontare, neppure con la morte.
La Dama Bianca non è solo fantasma: è simbolo di un dolore che non vuole essere dimenticato.
Le Streghe di Triora, la “Salem d’Italia”
Nel cuore dell’entroterra ligure, tra le montagne dell’Alta Valle Argentina, sorge Triora, un borgo medievale tanto suggestivo quanto tragicamente noto come la “Salem d’Italia”. Qui, tra il 1587 e il 1589, ebbe luogo uno dei processi per stregoneria più famosi e crudeli della penisola, durante una terribile carestia che devastò la regione.
Mentre i raccolti fallivano e la fame dilagava, la popolazione cercò un capro espiatorio, e l’accusa cadde su alcune donne del paese, considerate “diverse”, guaritrici, vedove o semplicemente troppo indipendenti.
Le autorità dell’epoca, sostenute dal tribunale dell’Inquisizione di Genova, avviarono un’inchiesta che portò all’arresto e alla tortura di decine di donne.

Vennero accusate di aver stretto patti con il demonio, di riunirsi di notte nei boschi per compiere sabba, di succhiare il sangue dei bambini e di scatenare tempeste contro i raccolti. Sotto atroci supplizi, molte confessarono ciò che gli inquisitori volevano sentire. Alcune morirono in carcere, altre scomparvero senza lasciare traccia.
La leggenda vuole che le streghe di Triora si radunassero in un luogo ancora oggi chiamato “La Cabotina”, un’area ai margini del borgo dove si crede praticassero i loro riti notturni. Lì, tra muretti e anfratti, l’atmosfera è ancora pervasa da un’aura di mistero. Gli abitanti del paese, pur consapevoli dell’orrore storico, mantengono viva la memoria di quelle donne attraverso racconti, musei e rievocazioni: ogni anno, durante il “Festival delle Streghe”, Triora si trasforma in un teatro a cielo aperto dove storia, magia e folklore si intrecciano.
Oggi la vicenda delle Streghe di Triora è considerata non solo una leggenda spaventosa, ma anche un simbolo di ingiustizia e di persecuzione femminile. Tra le vie strette del borgo, tra pietra e silenzio, sembra ancora risuonare l’eco delle loro voci, monito eterno di un passato che ha confuso la paura con la fede, e la diversità con il male.
Il Basilisco di Mondovì: una creatura dal potere mortale
Nel cuore del Piemonte, tra le colline e i vicoli di Mondovì, si tramanda la leggenda del Basilisco, una creatura mitica e temuta, il cui solo sguardo sarebbe capace di uccidere.
Descritto come un essere mostruoso, metà serpente e metà gallo, con squame lucenti e occhi fiammeggianti, il Basilisco incarnava l’essenza stessa del male e della corruzione. Si diceva nascesse da un uovo deposto da un gallo e covato da un rospo, segno di un prodigio oscuro e innaturale.

Secondo le cronache popolari, la bestia si sarebbe rifugiata nei sotterranei di Mondovì, in un dedalo di cunicoli e pozzi, dove seminava il terrore tra gli abitanti. Chiunque lo incontrasse, anche solo di sfuggita, moriva all’istante pietrificato o stroncato dal suo sguardo velenoso. L’unico modo per sconfiggerlo, si diceva, era fargli vedere la propria immagine riflessa: incapace di sopportare la vista di sé stesso, il Basilisco sarebbe morto all’istante, vittima del proprio potere distruttivo.
Il suo mito, diffuso in gran parte d’Europa è andato intrecciandosi con le paure reali della gente: epidemie, crolli, morti improvvise, tutti eventi che il popolo attribuiva al suo potere malefico. Nei secoli, il racconto del Basilisco divenne una sorta di leggenda morale, una spiegazione simbolica di tutto ciò che sfugge alla ragione. Alcuni lo vedevano come il riflesso del peccato umano, un castigo per la superbia, altri come il guardiano di un tesoro nascosto sotto la città, pronto a colpire chi osasse cercarlo. Ancora oggi, nelle notti silenziose, c’è chi giura di percepire un sibilo provenire dai vecchi cunicoli: un eco lontano di quella creatura che, forse, non ha mai davvero smesso di esistere!
Con il tempo, la leggenda del Basilisco di Mondovì assunse un valore simbolico: non solo mostro, ma metafora del male interiore, dell’orgoglio e dell’arroganza che finiscono per divorare chi li alimenta. Oggi, la figura del Basilisco sopravvive nella tradizione locale come emblema del mistero e dell’occulto, e molti visitatori, camminando tra le vie antiche della città, amano pensare che, nei sotterranei più bui, qualcosa di quella creatura mitica vegli ancora silenziosa.
Il lupo mannaro nel folklore del sud Italia
Nel Sud Italia, la leggenda del Lupo Mannaro assume sfumature affascinanti e profondamente legate alla tradizione contadina e al mondo rurale.

Lungi dall’essere solamente una creatura dei racconti gotici europei, il licantropo meridionale – chiamato in alcune regioni u lupomìnaru, lupomannaru o lupëru – è una figura sospesa tra maledizione, pena e superstizione. Si credeva che fosse un uomo colpito da una maledizione o da un castigo divino, costretto a trasformarsi in lupo durante le notti di luna piena, soprattutto se era il settimo figlio maschio o se aveva subito ingiustizie non espiate.
Le storie raccontano che il lupo mannaro non fosse sempre un mostro sanguinario: spesso era un uomo buono, vittima del destino, che vagava per le campagne urlando di dolore, cercando aiuto per spezzare il suo incantesimo. In alcune zone della Puglia e della Calabria, si credeva che bastasse ferirlo leggermente – senza ucciderlo – affinché riacquistasse la forma umana, o che una preghiera recitata con fede potesse liberarlo. Tuttavia, la paura di incontrarlo nelle notti di luna piena era palpabile: si raccontava di ululati provenire dai boschi, di animali scomparsi, di ombre che correvano tra i muretti a secco.
La figura del lupo mannaro nel Mezzogiorno riflette un intreccio profondo tra religione, magia e senso di colpa. Rappresenta l’uomo in lotta con la propria natura più oscura, simbolo di istinti repressi e di peccati da espiare. Oggi, la leggenda sopravvive nei racconti tramandati dai nonni, nei proverbi e nelle feste popolari, come eco lontano di un mondo dove la luna piena non era solo spettacolo naturale, ma presagio di una notte in cui gli uomini potevano diventare bestie.
Le Anime Pezzentelle di Napoli, culto popolare dei morti
Nel cuore affollato e vibrante di Napoli si nasconde un rito antico che intreccia la morte con la pietà popolare: il culto delle Anime Pezzentelle, ovvero di quei defunti senza nome, sepolti in massa, vittime di epidemie o semplicemente dimenticati, i cui resti divennero oggetto di cure, devozione e speranza da parte dei vivi.
Dopo la grande peste del 1656, che provocò migliaia di morti e lasciò circondati dalla disperazione numerosi cadaveri non reclamati, molte ossa furono ammassate nei sotterranei della città, specialmente nel Cimitero delle Fontanelle, nel quartiere Sanità.

La pratica prevedeva che qualcuno “adottasse” un cranio anonimo, chiamato capuzzella, lo pulisse, lo lucidasse, gli accendesse lumini e lo ornavando con fiori o piccoli oggetti, pronunciando preghiere e salmi per aiutare l’anima appartenente a quel teschio (le anime pezzentelle) a transitare più in fretta dal Purgatorio al Paradiso. Il rapporto fra vivi e morti era caratterizzato da uno scambio esplicito: il fedele offriva attenzioni, preghiera, cure al teschio e in cambio sperava in grazie, favore, protezione, e fortuna.
Pur essendo un rituale profondamente popolare, il culto delle Pezzentelle toccava corde profonde della religiosità popolare, l’idea che chi è nell’anonimato della morte meriti comunque preghiera e memoria. Nel tempo la Chiesa cattolica, pur tollerando queste pratiche per molti secoli, intervenne: nel 1969 un decreto del Tribunale per le Cause dei Santi proibì forme di culto individuali non controllate, limitando ufficialmente le pratiche alle celebrazioni collettive e formali del ricordo dei morti.
Oggi il Cimitero delle Fontanelle e la Chiesa delle Anime del Purgatorio ad Arco rimangono luoghi simbolo di questo culto, affascinanti e inquietanti nello stesso tempo. Le capuzzelle più note, come quella di “Lucia”, la sposa mancata, sono ancora oggetto di visita, preghiera, doni e devozione.
Il veto religioso non ha però cancellato l’affetto popolare: resta il bisogno di ricordare, di espiare, di sentire che nulla nella vita, nemmeno il più anonimo destino, è del tutto dimenticato.
Le Janas della Sardegna
Nelle campagne silenziose della Sardegna, tra rocce granitiche e colline battute dal vento, si celano antiche cavità scavate nella pietra, note come domus de janas, le “case delle fate”.

Secondo la tradizione popolare, in questi ipogei misteriosi vivrebbero le Janas, piccole creature femminili dotate di poteri magici, sospese tra il mondo delle fate e quello delle streghe.
Il loro nome, che ricorda quello latino di Diana, la dea della luna e della natura selvaggia, suggerisce un’origine remota, legata ai culti precristiani e alla venerazione delle forze della terra. Le Janas sono descritte come donne bellissime e minute, vestite di veli luminosi e gioielli d’oro, abili tessitrici che lavorano instancabilmente ai loro telai magici, producendo stoffe finissime che nascondono incantesimi. Si dice che vivano in comunità nelle antiche tombe scavate nella roccia, uscendo solo al calar del sole per danzare sotto la luna. Talvolta si mostrano benevole, aiutando i pastori o lasciando piccoli doni a chi rispetta la natura; ma possono diventare vendicative se qualcuno profana le loro dimore o cerca di rubare i loro tesori.
Alcune versioni più oscure della leggenda raccontano che le Janas non siano fate, ma spiriti inquieti di donne antiche, condannate a vivere per sempre tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Le loro dimore, le domus de janas, diventano così luoghi di confine, dove si fondono mistero, sacralità e paura.
Oggi, visitando i siti archeologici sardi come quelli di Sant’Andrea Priu o Anghelu Ruju, è possibile immaginare come sia nata la leggenda: il silenzio, le incisioni rupestri e l’eco delle stanze sotterranee sembrano davvero custodire una presenza invisibile. Le Janas rappresentano l’anima magica e arcaica della Sardegna: un ponte tra l’antico culto dei morti e la fantasia del popolo, che ha trasformato le tombe in regni fatati e le ombre del passato in creature capaci di incutere meraviglia e timore.
La leggenda della Signora del Lago
Si dice che nelle notti di luna piena, sulle acque immobili del Lago di Garda, si possa scorgere una figura femminile avvolta da un velo bianco: è la Signora del Lago, spirito inquieto di una donna scomparsa secoli fa, che ancora oggi torna a cercare il suo amore perduto.

La leggenda racconta che fosse la giovane moglie di un cavaliere partito per la guerra, promessa a non dimenticarlo mai. Ma il tempo passò, e lei, credendolo morto, accettò di risposarsi. Proprio nella notte delle nuove nozze, il cavaliere fece ritorno e, accecato dalla rabbia, la gettò nelle acque del lago.
Da allora, il suo spirito appare solo quando la luna illumina la superficie dell’acqua. Alcuni giurano di aver udito un canto dolce e malinconico, altri di aver visto una mano bianca affiorare dalle onde, come a chiedere perdono. I pescatori, ancora oggi, evitano di uscire in barca in certe notti, convinti che la Signora del Lago trascini con sé chi osa disturbare il suo eterno dolore.
E così, come ogni leggenda italiana (e come tanti film horror italiani), anche questa unisce paura, amore e rimorso, ricordandoci che dietro ogni fantasma c’è sempre una storia umana: una promessa infranta, una colpa non espiata, un’emozione che il tempo non è riuscito a cancellare.









